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Comment to Claudio Borghi

Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università di Bologna

L’ambito della divulgazione scientifica è popolato da una serie infinita di informazioni incontrollate che di volta in volta suggeriscono o sconsigliano il consumo di sostanze, comportamenti o abitudini personali in assenza di evidenze sostenute da una corretta metodologia di indagine. In particolare, “questo fa bene” o “questo fa male” sono un mantra della nostra vita quotidiana sulla base del quali si indirizzano scelte e consuetudini del tutto ingiustificate. IL caffè è una delle sostanze cadute in uno di questi paradossi.

Dopo l’acqua, la bevanda più bevuta nel mondo è certamente il caffè. Ogni giorno milioni di tazzine di caffè vengono consumate ad ogni latitudine e preparato modalità molti diverse ma tutte caratterizzate da una intensa compartecipazione emotiva cha attribuisce al consumo del caffè una sorta di significato rituale e talora propiziatorio quando si dice “perché quella questione che ci riguarda non la discutiamo davanti ad un caffè’”. IL caffè è un insieme complesso di sostanze ( sai stima oltre 1000) che possiamo suddividere in due grandi categorie: la caffeina e i composti antiossidanti (tabella 1).

Il caffè espresso contiene circa 60 mg di caffeina per tazza, il caffè solubile può variare fra i 30 ed i 90 mg, quello “americano” fornisce in genere fra 180 e 300 mg di caffeina per tazza, mentre il caffè decaffeinato solo 3 mg. Contenuti superiori possono essere presenti negli integratori o nelle bevande energetiche. La caffeina attribuisce al caffè la capacità di tenerci svegli e reattivi e di generare quella spinta che noi ci aspettiamo quando beviamo un caffè, ma anche la capacità di generare difficoltà di addormentamento e/o vera e propria insonnia che porta molte persone a non bere caffè nel pomeriggio ed in serata. Effetti tossici sono molto rari e compaiono per dosaggi di ≥1.2 g (oltre 20 espressi), mentre la dose ritenuta letale si ritiene sia di oltre 10 grammi. Peraltro, avvelenamenti da caffeina dovuti al consumo di caffè sono rari, dal momento che sarebbero necessarie almeno 75-100 tazze di caffè consumate in breve tempo per avere conseguenze fatali. Le differenze nell’effetto della caffeina dipendono nella maggior parte dei casi ad una realtà di natura farmacocinetica (la caffeina si comporta come un farmaco a tutti gli effetti) sulla base della quale il metabolismo della caffeina differisce da soggetto a soggetto e condiziona una maggiore o minore probabilità di una breve o lunga durata dell’effetto eccitante della stessa. Proprio la natura farmacologica della caffeina è anche responsabile dei sintomi tipici della sindrome da astinenza che affligge i bevitori di caffè quando cessano la sua assunzione e che si caratterizza soprattutto per una fastidiosa sonnolenza associata a sintomi più o meno tipici di cefalea vasomotoria.

Tuttavia, dal punto di vista cardiovascolare l’aspetto di maggiore interesse per il caffè non è la caffeina, ma è l’effetto antiossidante della miriade di sostanze che sono contenute nel chicco di caffè che vengono di fatto trasferite nella tazzina che noi consumiamo durante il giorno (Tabella). Proprio la conversione dell’interesse dalla caffeina alle sostanze antiossidanti ha generato l’interesse per le azioni cardio-protettive del caffè ed il suo impatto favorevole che ne ha decretato l’ingresso nelle linee guida delle società scientifiche (in particolare European Society of Cardiology) che hanno di fatto introdotto il consumo moderato di caffè tra le strategie di prevenzione basate sulle modificazioni dello stile di vita. Il consumo abituale di caffè non modifica di fatto i valori di pressione arteriosa se non nei bevitori occasionali e saltuari. Una tazzina ogni tanto determina una modificazione della pressione molto più significativa rispetto alla assunzione sistematica della stessa sostanza. La assunzione di caffè non è responsabile dello sviluppo di aritmie cardiaca (soprattutto di tipo ipercinetico) e questo vale sia nei pazienti con cuore sano sia il coloro che sono sopravvissuti ad un infarto miocardico. Lo stesso vale per una altra condizione cardiovascolare assai diffusa come la fibrillazione atriale il cui sviluppo e controllo della frequenza cardiaca non sono significativamente influenzati dal consumo di caffè. Inoltre la caffè non modifica la prognosi clinica nei pazienti sopravvissuti ad infarto miocardico ed in particolare lo studio GISSI Prevenzione condotto sulla popolazione italiana ha riportato una riduzione numerica di eventi cardiovascolari maggiori in questa importante tipologia di pazienti (Figura 1) che quindi non dovrebbero essere sottoposti ad una ingiustificata privazione quando abbiano una abitudine pre-esistente al consumo di caffè.

Tutti questi dati hanno sovvertito un concetto largamente diffuso e cioè che in presenza di malattia cardiovascolari anche solo potenziali (es. ipertensione arteriosa) la soluzione più saggia sia ridurre o sospendere la assunzione di caffè che, invece, dovrebbe essere introdotto tra le sostanze ad azione cardioprotettiva ed utilizzato con finalità preventive. L’insieme di queste evidenze rappresenta la base per il risultato più eclatante e, probabilmente, inatteso legato al consumo di caffè e rappresentato dalla riduzione della mortalità con un progressivo incremento del benefico incrementando il consumo da 0 a 5 tazzine al giorno con un effetto che appare coerente con quanto riportato in precedenza e fortemente significativo in termini di epidemiologia clinica.

In termini pratici, la vicenda del caffè dovrebbe fare riflettere sulla natura scientifica delle raccomandazioni in termini di abitudini di vita e considerare che la esperienza dei singoli e le apparenze dovrebbero essere disgiunte dalle evidenze scientifiche soprattutto in ambito clinico. L’affermarsi progressivo degli studi osservazionali su grandi popolazioni stanno infatti sovvertendo alcune delle congetture derivate dalla saggezza popolare, che come tale è un valore assoluto della società, ma il cui valore in termini salutistici dovrebbe sempre essere corroborato da dati di fatto e la vicenda della bevanda più gradita al mondo dopo l’acqua dovrebbe essere di esempio.

Autore/i: Claudio Borghi

Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università di Bologna

Tabella 1
Figura 1
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Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università di Bologna

L’ambito della divulgazione scientifica è popolato da una serie infinita di informazioni incontrollate che di volta in volta suggeriscono o sconsigliano il consumo di sostanze, comportamenti o abitudini personali in assenza di evidenze sostenute da una corretta metodologia di indagine. In particolare, “questo fa bene” o “questo fa male” sono un mantra della nostra vita quotidiana sulla base del quali si indirizzano scelte e consuetudini del tutto ingiustificate. IL caffè è una delle sostanze cadute in uno di questi paradossi.

Dopo l’acqua, la bevanda più bevuta nel mondo è certamente il caffè. Ogni giorno milioni di tazzine di caffè vengono consumate ad ogni latitudine e preparato modalità molti diverse ma tutte caratterizzate da una intensa compartecipazione emotiva cha attribuisce al consumo del caffè una sorta di significato rituale e talora propiziatorio quando si dice “perché quella questione che ci riguarda non la discutiamo davanti ad un caffè’”. IL caffè è un insieme complesso di sostanze ( sai stima oltre 1000) che possiamo suddividere in due grandi categorie: la caffeina e i composti antiossidanti (tabella 1).

Il caffè espresso contiene circa 60 mg di caffeina per tazza, il caffè solubile può variare fra i 30 ed i 90 mg, quello “americano” fornisce in genere fra 180 e 300 mg di caffeina per tazza, mentre il caffè decaffeinato solo 3 mg. Contenuti superiori possono essere presenti negli integratori o nelle bevande energetiche. La caffeina attribuisce al caffè la capacità di tenerci svegli e reattivi e di generare quella spinta che noi ci aspettiamo quando beviamo un caffè, ma anche la capacità di generare difficoltà di addormentamento e/o vera e propria insonnia che porta molte persone a non bere caffè nel pomeriggio ed in serata. Effetti tossici sono molto rari e compaiono per dosaggi di ≥1.2 g (oltre 20 espressi), mentre la dose ritenuta letale si ritiene sia di oltre 10 grammi. Peraltro, avvelenamenti da caffeina dovuti al consumo di caffè sono rari, dal momento che sarebbero necessarie almeno 75-100 tazze di caffè consumate in breve tempo per avere conseguenze fatali. Le differenze nell’effetto della caffeina dipendono nella maggior parte dei casi ad una realtà di natura farmacocinetica (la caffeina si comporta come un farmaco a tutti gli effetti) sulla base della quale il metabolismo della caffeina differisce da soggetto a soggetto e condiziona una maggiore o minore probabilità di una breve o lunga durata dell’effetto eccitante della stessa. Proprio la natura farmacologica della caffeina è anche responsabile dei sintomi tipici della sindrome da astinenza che affligge i bevitori di caffè quando cessano la sua assunzione e che si caratterizza soprattutto per una fastidiosa sonnolenza associata a sintomi più o meno tipici di cefalea vasomotoria.

Tuttavia, dal punto di vista cardiovascolare l’aspetto di maggiore interesse per il caffè non è la caffeina, ma è l’effetto antiossidante della miriade di sostanze che sono contenute nel chicco di caffè che vengono di fatto trasferite nella tazzina che noi consumiamo durante il giorno (Tabella). Proprio la conversione dell’interesse dalla caffeina alle sostanze antiossidanti ha generato l’interesse per le azioni cardio-protettive del caffè ed il suo impatto favorevole che ne ha decretato l’ingresso nelle linee guida delle società scientifiche (in particolare European Society of Cardiology) che hanno di fatto introdotto il consumo moderato di caffè tra le strategie di prevenzione basate sulle modificazioni dello stile di vita. Il consumo abituale di caffè non modifica di fatto i valori di pressione arteriosa se non nei bevitori occasionali e saltuari. Una tazzina ogni tanto determina una modificazione della pressione molto più significativa rispetto alla assunzione sistematica della stessa sostanza. La assunzione di caffè non è responsabile dello sviluppo di aritmie cardiaca (soprattutto di tipo ipercinetico) e questo vale sia nei pazienti con cuore sano sia il coloro che sono sopravvissuti ad un infarto miocardico. Lo stesso vale per una altra condizione cardiovascolare assai diffusa come la fibrillazione atriale il cui sviluppo e controllo della frequenza cardiaca non sono significativamente influenzati dal consumo di caffè. Inoltre la caffè non modifica la prognosi clinica nei pazienti sopravvissuti ad infarto miocardico ed in particolare lo studio GISSI Prevenzione condotto sulla popolazione italiana ha riportato una riduzione numerica di eventi cardiovascolari maggiori in questa importante tipologia di pazienti (Figura 1) che quindi non dovrebbero essere sottoposti ad una ingiustificata privazione quando abbiano una abitudine pre-esistente al consumo di caffè.

Tutti questi dati hanno sovvertito un concetto largamente diffuso e cioè che in presenza di malattia cardiovascolari anche solo potenziali (es. ipertensione arteriosa) la soluzione più saggia sia ridurre o sospendere la assunzione di caffè che, invece, dovrebbe essere introdotto tra le sostanze ad azione cardioprotettiva ed utilizzato con finalità preventive. L’insieme di queste evidenze rappresenta la base per il risultato più eclatante e, probabilmente, inatteso legato al consumo di caffè e rappresentato dalla riduzione della mortalità con un progressivo incremento del benefico incrementando il consumo da 0 a 5 tazzine al giorno con un effetto che appare coerente con quanto riportato in precedenza e fortemente significativo in termini di epidemiologia clinica.

In termini pratici, la vicenda del caffè dovrebbe fare riflettere sulla natura scientifica delle raccomandazioni in termini di abitudini di vita e considerare che la esperienza dei singoli e le apparenze dovrebbero essere disgiunte dalle evidenze scientifiche soprattutto in ambito clinico. L’affermarsi progressivo degli studi osservazionali su grandi popolazioni stanno infatti sovvertendo alcune delle congetture derivate dalla saggezza popolare, che come tale è un valore assoluto della società, ma il cui valore in termini salutistici dovrebbe sempre essere corroborato da dati di fatto e la vicenda della bevanda più gradita al mondo dopo l’acqua dovrebbe essere di esempio.

Autore/i: Claudio Borghi

Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università di Bologna

Tabella 1
Figura 1

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