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Comment to Antonella Ortello, Francesco Comparato, Vincenzo Sucato

U.O.C. di Cardiologia, Dipartimento di Promozione della salute Materno-Infantile, Medicina Interna e Specialistica di Eccellenza (ProMISE), A.O.U. Policlinico P. Giaccone, Università degli Studi di Palermo

Introduzione

Le malattie cardiovascolari (CV) costituiscono una delle principali cause di mortalità in tutto il mondo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 2019 circa il 32% delle morti globali è stato attribuito a malattie cardiovascolari (1). Tra queste, ruolo predominante gioca la malattia coronarica aterosclerotica, la quale rappresenta la prima causa di mortalità e morbilità nella popolazione generale. Studi autoptici e in vivo hanno mostrato come la placca aterosclerotica fosse il substrato patologico alla base della cascata di eventi che culminano con la sindrome coronarica (2). È ormai noto, infatti, come vi sia una relazione tra l’estensione della malattia, il suo tasso di progressione e gli eventi cardiovascolari (3,4).

La patogenesi della malattia coronarica aterosclerotica è multifattoriale, ma i dati derivati da studi clinici ed epidemiologici confermano il ruolo causale delle lipoproteine a bassa densità (LDL) nella genesi e nell’evoluzione della malattia (5,6). Ciò ha stimolato la ricerca di trattamenti farmacologici finalizzati al controllo e alla riduzione del burden aterosclerotico nei pazienti a rischio di sviluppare malattia coronarica. La riduzione dei livelli di C-LDL si associa infatti a una riduzione del rischio di eventi cardiovascolari, in misura proporzionale sia all’entità della riduzione, sia alla durata del trattamento: questo concetto di “lower is better” ha spinto le ultime linee guida sull’argomento a diminuire in modo sostanziale la soglia di C-LDL da raggiungere (7,8). Diversi studi hanno, inoltre, rilevato che la riduzione dei livelli di C-LDL anche al di sotto dei target raccomandati dalle linee guida ESC/EAS è associata a un numero inferiore di eventi CV (9–11). È quindi opportuno ridurre i livelli di C-LDL il più possibile, soprattutto nei pazienti a rischio CV molto elevato. A tal proposito, una metanalisi di 34 trial clinici randomizzati comprendenti complessivamente 270.288 pazienti ha dimostrato che una terapia ipolipemizzante più intensiva si associava a una riduzione della mortalità complessiva e della mortalità CV progressivamente crescente all’aumentare dei livelli basali di C-LDL (12). Ruolo fondamentale è giocato anche dalla tempestività dell’inizio del trattamento. Diversi studi hanno dimostrato che l’adozione di una terapia ipolipemizzante intensiva entro 10 giorni da un episodio di SCA riduca il rischio in misura maggiore rispetto a regimi non intensivi (13,14). A tal proposito, risulta importante non soltanto raggiungere i target terapeutici definiti a seconda dei profili di rischio e del grado di prevenzione, ma attuare un regime terapeutico il più intensivo possibile in modo tempestivo.

 

L’importanza della stratificazione del rischio nella prevenzione cardiovascolare

La modifica più rilevante delle linee guida ESC 2021 sulla prevenzione CV è la raccomandazione all’utilizzo di nuovi algoritmi per la stima del rischio, che sostituiscono il precedente sistema SCORE. In particolare, sono stati introdotti nuovi calcolatori, denominati SCORE2 (Systematic Coronary Risk Estimation 2) e SCORE2-OP, (Systematic Coronary Risk Estimation 2- Older Persons), per i soggetti con età superiore a 70 anni, così come è stata introdotta la stima degli eventi CV non fatali (infarto miocardico ed ictus) nella valutazione globale del rischio (Tabella 1) (15). A differenza di quanto previsto dallo SCORE, nelle tabelle di rischio definite dallo SCORE2 l’Italia non è più classificata come un Paese a basso rischio CV, ma rientra tra quelli a rischio moderato per mortalità CV. Ciò perché negli ultimi anni vi è stata una scarsa implementazione delle misure di prevenzione CV, in particolare, nell’ambito della prevenzione primaria, si è prestata poca attenzione ad alcune condizioni ampiamente diffuse e prognosticamente rilevanti, in primis l’obesità. Altra nuova rilevante introduzione è il concetto di “lifetime risk”, che entra nel processo decisionale ed informativo per il paziente, ovvero la previsione dell’età alla quale un individuo ha il 50% di probabilità di sviluppare un evento CV fatale o non fatale. Il rischio lifetime di malattie cardiovascolari viene determinato attraverso i dati ricavati dall’esperienza clinica ed avvalendosi di criteri quali l’età, i livelli dei fattori di rischio (e le loro variazioni) e i modificatori del rischio. Il rischio lifetime può anche essere stimato utilizzando specifici score di rischio.

Il beneficio lifetime secondario alla gestione e al trattamento dei fattori di rischio è rappresentato dalla differenza numerica tra l’età prevista alla quale esiste una probabilità del 50% che una persona abbia sviluppato un evento CV (in assenza di interventi di prevenzione) e quella stimata in presenza di un trattamento dei fattori di rischio (cessazione del fumo, riduzione della colesterolemia e riduzione della pressione arteriosa). Tali calcolatori sono facilmente accessibili online (un esempio è l’app ESC CVD Risk Calculation) e possono essere utilizzati per la stima del rischio cardiovascolare e del beneficio lifetime medio.

 

Le ultime linee guida ESC 2021 sulla Prevenzione Cardiovascolare raccomandano dunque una valutazione sistematica del rischio CV in determinate categorie di pazienti. Nello specifico sono applicabili nei seguenti casi: individui apparentemente sani senza malattia cardiovascolare aterosclerotica (ASCVD) accertata, diabete mellito, insufficienza renale o ipercolesterolemia familiare, nelle fasce di età 55-75 anni nelle donne e tra i 40 e i 65 anni negli uomini in cui si assiste ad un rischio di malattie CV a 10 anni variabile intorno alle soglie comunemente utilizzate per l’intervento. Altresì, altre categorie di pazienti identificabili sono quelli con: insufficienza renale cronica in assenza di diabete o ASCVD; ipercolesterolemia familiare; diabete mellito con o senza danno d’organo, più o meno associati a ASCVD nota (anche i pazienti con diabete di tipo 1, di età superiore a 40 anni possono rientrare in questa categoria); e ASCVD clinicamente accertata (IMA, SCA, rivascolarizzazione coronarica o altro intervento di rivascolarizzazione arteriosa, ictus e TIA, aneurisma aortico e PAD) o rilevata ai test di imaging mediante il riscontro di placche alla coronarografia o all’ultrasonografia carotidea o alla CTA.

 

Nella definizione del rischio vengono presi in considerazione parametri clinici e laboratoristici, dalla cui analisi è possibile determinare una specifica classe di rischio.

Le ultime linee guida ESC 2023 per il trattamento delle malattie cardiovascolari presentano alcune novità per quanto riguarda la stratificazione del rischio nei pazienti diabetici. Le precedenti linee guida sulla prevenzione suggerivano l’utilizzo dello score ADVANCE (Action in Diabetes and Vascular disease: preterAx and diamicroN MR Controlled Evaluation), tuttavia poco applicabile alle popolazioni europee odierne. Per fare fronte a questi limiti, le ultime linee guida ESC 2023 raccomandano l’utilizzo dello SCORE2-Diabetes, che consiste in un’estensione del sistema SCORE2 europeo ricalibrato, applicabile specificatamente ai soggetti con diabete mellito di tipo 2 di età compresa tra 40-69 anni senza ASCVD o danno d’organo severo per stimare il rischio individuale di eventi CV fatali e non fatali a 10 anni (Tabella 2).

Per ognuna delle categorie sopra descritte sono stati, pertanto, individuati diversi profili di rischio (basso-moderato, alto e molto alto) a seconda della probabilità di sviluppare malattie cardiovascolari fatali e non fatali a 10 anni. Così facendo è possibile individuare i target di pressione arteriosa e di colesterolo non-HDL da raggiungere.

 

Approccio farmacologico con i farmaci ipolipemizzanti

L’approccio farmacologico con i farmaci ipolipemizzanti attualmente in uso prevede una strategia “stepwise” al fine di conseguire il target LDL definito in base alla categoria di rischio designata. Le stesse linee guida forniscono le riduzioni assolute dei livelli di C-LDL che possono essere raggiunte con diversi approcci terapeutici (Tabella 3): si passa da una riduzione media stimata dei livelli di C-LDL del 30% con una terapia con statine di intensità moderata, al 50% con una terapia con statine ad elevata intensità, fino al 65% con l’aggiunta di ezetimibe (16). L’aggiunta di un inibitore della PCSK9 alla terapia con statine ad alta intensità da sola o associata a ezetimibe può portare la riduzione dei livelli di C-LDL rispettivamente al 75% e 85%. L’effetto ottenuto con l’utilizzo di una monoterapia con statina ad alta intensità può essere raggiunto mediante l’associazione con statine ad intensità moderata + ezetimibe. Recenti evidenze, infatti, supportano tale scelta al fine di migliorare l’aderenza terapeutica grazie ad una riduzione degli effetti indesiderati secondari all’utilizzo di statina ad alta intensità (17).

Alla luce di quanto finora esposto, appare evidente come le nuove strategie di intervento si dovrebbero basare non soltanto sul raggiungimento del livello più basso di C-LDL, ma anche sulla precocità del trattamento, soprattutto in presenza di specifiche condizioni e fenotipi clinici (18). In particolare, nei pazienti a rischio molto elevato, così come quelli a rischio estremamente elevato (1 o più eventi entro 2 anni), potrebbe essere vantaggioso iniziare la terapia ipolipemizzante direttamente con la combinazione statine + ezetimibe. L’impiego della tripla terapia (statine + ezetimibe + inibitori della PCSK9) prima della dimissione potrebbe consentire di sfruttare al massimo i benefici derivanti dalla terapia di associazione precoce.

 

Trattamento ipocolesterolemizzante intensivo: effetti sulla placca aterosclerotica

I meccanismi patogenetici che concorrono alla formazione della placca aterosclerotica e alla sua progressione sono diversi e il processo sotteso al suo sviluppo è altamente dinamico, nonché associato a fenomeni differenti (19). Ad oggi, grazie alle metodiche di imaging intracoronarico è possibile definire l’estensione e la composizione della placca aterosclerotica in vivo, permettendo di valutare le variazioni qualitative e quantitative indotte dalla terapia farmacologica.

Diversi studi condotti negli ultimi anni hanno mostrato, inoltre, come un farmaco ipolipemizzante potesse non solo rallentare la progressione della placca aterosclerotica coronarica, ma anche indurre fenomeni di regressione significativi (20,21).

Un recente trial ha confrontato due statine al massimo dosaggio, rosuvastatina 40 mg/die e atorvastatina 80 mg/die, in pazienti con patologia coronarica. In entrambi i gruppi si è documentata un’importante e significativa regressione dell’aterosclerosi coronarica. Entrambi i regimi di trattamento hanno indotto una regressione nella maggior parte dei pazienti e presentavano profili di effetti collaterali accettabili, con una bassa incidenza di alterazioni degli esami di laboratorio ed eventi cardiovascolari (22).

Studi che hanno esaminato l’efficacia di rosuvastatina versus atorvastatina sulla placca aterosclerositica hanno evidenziato come la rosuvastatina sia più efficace nella rapida stabilizzazione della placca e di una maggiore regressione del suo volume (23-25). Negli ultimi anni, gli anticorpi monoclonali inibitori di PCSK9 hanno avuto larga diffusione nel trattamento dei pazienti con malattia coronarica in associazione con statine ed ezetimibe. Diversi trial ne hanno studiato in vivo gli effetti sulla placca aterosclerotica. È interessante notare come esista una chiara corrispondenza tra regressione dell’aterosclerosi e beneficio clinico della molecola (26-28).

 

La semplificazione della terapia per migliorare l’aderenza al trattamento

Le osservazioni del mondo reale, tuttavia, attestano l’ampio divario circa l’effettivo conseguimento dei target raccomandati dalle linee guida. Nello studio osservazionale europeo DA VINCI solo il 18% dei 2.888 pazienti in prevenzione secondaria presentava un valore di C-LDL < 55 mg/dl, di questi solo il 9% era in trattamento con statina a moderata/alta intensità + ezetimibe e il 45,8% era in trattamento con una statina a bassa o media intensità. Anche i risultati dello studio EUROASPIRE IV relativi alla terapia ipolipemizzante nei pazienti con coronaropatia hanno dimostrato che, nonostante le evidenze dei benefici della terapia ipolipemizzante intensiva, molti pazienti con coronaropatia e dislipidemia non vengono adeguatamente trattati, solo un terzo dei pazienti viene dimesso con una terapia intensiva con statine.

Questo potrebbe essere spiegato in parte dallo scarso impiego di terapie di combinazione, in parte dalla bassa aderenza al trattamento, ascrivibile, tra i diversi fattori, alla terapia poli-farmacologica stessa che impone al paziente con multiple comorbilità l’assunzione di diversi farmaci (29,30).

La polipillola, contenente diversi agenti farmacologici mirati al controllo di uno o più fattori di rischio o di malattia, rappresenta una strategia di semplificazione della terapia che consente di favorire l’aderenza e migliorare gli outcomes clinici cardiovascolari (31). Una revisione sistematica della letteratura, che ha incluso nove studi clinici randomizzati, ha evidenziato che una polipillola contenente almeno un agente antipertensivo e uno ipocolesterolemizzante è associata ad un’aderenza terapeutica del 33% superiore rispetto alla terapia standard (31,32). Ad oggi, le linee guida della Società Europea di Cardiologia sulla gestione delle dislipidemie raccomandano l’impiego di farmaci che contengono più agenti terapeutici in un’unica compressa. Il peso della polifarmacologia sull’aderenza terapeutica è confermato anche dalla dimostrazione che i pazienti in terapia ipolipemizzante che ricevono l’associazione statina + ezetimibe in un’unica pillola presentano una probabilità dell’87% più elevata di essere altamente aderenti al trattamento rispetto a quelli che assumono i due farmaci separatamente, indipendentemente da età, genere o profilo clinico, e con una riduzione degli outcomes CV del 55% rispetto ai pazienti con bassa aderenza (33).

Appare evidente come nel paziente dislipidemico a rischio di sviluppare patologie cardiovascolari sia opportuno applicare un trattamento ipolipemizzante intensivo, garantendo la massima aderenza terapeutica. Uno studio recente ha valutato il contributo congiunto dell’intensità e dell’aderenza alla terapia prescritta sugli eventi CV in pazienti dislipidemici con fattori di rischio CV o patologie CV conclamate.

È stata quindi confermata l’associazione di entrambi i fattori con una maggiore diminuzione del rischio CV, come effetto di un’efficace riduzione dei ivelli di C-LDL. Il rischio CV più basso è stato infatti osservato nei pazienti con elevata aderenza a un trattamento ipolipemizzante intensivo.

 

Conclusione

Il trattamento ipolipemizzante si è dimostrato efficace nella prevenzione cardiovascolare, ma la scarsa propensione a prescrivere un regime intensivo e la ridotta aderenza costituiscono ancora forti barriere all’ottimizzazione terapeutica. Considerato l’elevato impatto epidemiologico che tutt’oggi hanno le patologie cardiovascolari, con alti tassi di mortalità a livello globale, appare dunque essenziale implementare le strategie di trattamento mediante l’utilizzo di associazioni farmacologiche (e.g. statina a moderata/alta intensità + ezetimibe) al fine di migliorare l’aderenza terapeutica e ridurre il burden di rischio aterosclerotico.

 

 

Bibliografia

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Autore/i: Antonella Ortello, Francesco Comparato, Vincenzo Sucato

U.O.C. di Cardiologia, Dipartimento di Promozione della salute Materno-Infantile, Medicina Interna e Specialistica di Eccellenza (ProMISE), A.O.U. Policlinico P. Giaccone, Università degli Studi di Palermo

Tabella 1
Tabella 2
Tabella 3
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Comment to Antonella Ortello, Francesco Comparato, Vincenzo Sucato

U.O.C. di Cardiologia, Dipartimento di Promozione della salute Materno-Infantile, Medicina Interna e Specialistica di Eccellenza (ProMISE), A.O.U. Policlinico P. Giaccone, Università degli Studi di Palermo

Introduzione

Le malattie cardiovascolari (CV) costituiscono una delle principali cause di mortalità in tutto il mondo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 2019 circa il 32% delle morti globali è stato attribuito a malattie cardiovascolari (1). Tra queste, ruolo predominante gioca la malattia coronarica aterosclerotica, la quale rappresenta la prima causa di mortalità e morbilità nella popolazione generale. Studi autoptici e in vivo hanno mostrato come la placca aterosclerotica fosse il substrato patologico alla base della cascata di eventi che culminano con la sindrome coronarica (2). È ormai noto, infatti, come vi sia una relazione tra l’estensione della malattia, il suo tasso di progressione e gli eventi cardiovascolari (3,4).

La patogenesi della malattia coronarica aterosclerotica è multifattoriale, ma i dati derivati da studi clinici ed epidemiologici confermano il ruolo causale delle lipoproteine a bassa densità (LDL) nella genesi e nell’evoluzione della malattia (5,6). Ciò ha stimolato la ricerca di trattamenti farmacologici finalizzati al controllo e alla riduzione del burden aterosclerotico nei pazienti a rischio di sviluppare malattia coronarica. La riduzione dei livelli di C-LDL si associa infatti a una riduzione del rischio di eventi cardiovascolari, in misura proporzionale sia all’entità della riduzione, sia alla durata del trattamento: questo concetto di “lower is better” ha spinto le ultime linee guida sull’argomento a diminuire in modo sostanziale la soglia di C-LDL da raggiungere (7,8). Diversi studi hanno, inoltre, rilevato che la riduzione dei livelli di C-LDL anche al di sotto dei target raccomandati dalle linee guida ESC/EAS è associata a un numero inferiore di eventi CV (9–11). È quindi opportuno ridurre i livelli di C-LDL il più possibile, soprattutto nei pazienti a rischio CV molto elevato. A tal proposito, una metanalisi di 34 trial clinici randomizzati comprendenti complessivamente 270.288 pazienti ha dimostrato che una terapia ipolipemizzante più intensiva si associava a una riduzione della mortalità complessiva e della mortalità CV progressivamente crescente all’aumentare dei livelli basali di C-LDL (12). Ruolo fondamentale è giocato anche dalla tempestività dell’inizio del trattamento. Diversi studi hanno dimostrato che l’adozione di una terapia ipolipemizzante intensiva entro 10 giorni da un episodio di SCA riduca il rischio in misura maggiore rispetto a regimi non intensivi (13,14). A tal proposito, risulta importante non soltanto raggiungere i target terapeutici definiti a seconda dei profili di rischio e del grado di prevenzione, ma attuare un regime terapeutico il più intensivo possibile in modo tempestivo.

 

L’importanza della stratificazione del rischio nella prevenzione cardiovascolare

La modifica più rilevante delle linee guida ESC 2021 sulla prevenzione CV è la raccomandazione all’utilizzo di nuovi algoritmi per la stima del rischio, che sostituiscono il precedente sistema SCORE. In particolare, sono stati introdotti nuovi calcolatori, denominati SCORE2 (Systematic Coronary Risk Estimation 2) e SCORE2-OP, (Systematic Coronary Risk Estimation 2- Older Persons), per i soggetti con età superiore a 70 anni, così come è stata introdotta la stima degli eventi CV non fatali (infarto miocardico ed ictus) nella valutazione globale del rischio (Tabella 1) (15). A differenza di quanto previsto dallo SCORE, nelle tabelle di rischio definite dallo SCORE2 l’Italia non è più classificata come un Paese a basso rischio CV, ma rientra tra quelli a rischio moderato per mortalità CV. Ciò perché negli ultimi anni vi è stata una scarsa implementazione delle misure di prevenzione CV, in particolare, nell’ambito della prevenzione primaria, si è prestata poca attenzione ad alcune condizioni ampiamente diffuse e prognosticamente rilevanti, in primis l’obesità. Altra nuova rilevante introduzione è il concetto di “lifetime risk”, che entra nel processo decisionale ed informativo per il paziente, ovvero la previsione dell’età alla quale un individuo ha il 50% di probabilità di sviluppare un evento CV fatale o non fatale. Il rischio lifetime di malattie cardiovascolari viene determinato attraverso i dati ricavati dall’esperienza clinica ed avvalendosi di criteri quali l’età, i livelli dei fattori di rischio (e le loro variazioni) e i modificatori del rischio. Il rischio lifetime può anche essere stimato utilizzando specifici score di rischio.

Il beneficio lifetime secondario alla gestione e al trattamento dei fattori di rischio è rappresentato dalla differenza numerica tra l’età prevista alla quale esiste una probabilità del 50% che una persona abbia sviluppato un evento CV (in assenza di interventi di prevenzione) e quella stimata in presenza di un trattamento dei fattori di rischio (cessazione del fumo, riduzione della colesterolemia e riduzione della pressione arteriosa). Tali calcolatori sono facilmente accessibili online (un esempio è l’app ESC CVD Risk Calculation) e possono essere utilizzati per la stima del rischio cardiovascolare e del beneficio lifetime medio.

 

Le ultime linee guida ESC 2021 sulla Prevenzione Cardiovascolare raccomandano dunque una valutazione sistematica del rischio CV in determinate categorie di pazienti. Nello specifico sono applicabili nei seguenti casi: individui apparentemente sani senza malattia cardiovascolare aterosclerotica (ASCVD) accertata, diabete mellito, insufficienza renale o ipercolesterolemia familiare, nelle fasce di età 55-75 anni nelle donne e tra i 40 e i 65 anni negli uomini in cui si assiste ad un rischio di malattie CV a 10 anni variabile intorno alle soglie comunemente utilizzate per l’intervento. Altresì, altre categorie di pazienti identificabili sono quelli con: insufficienza renale cronica in assenza di diabete o ASCVD; ipercolesterolemia familiare; diabete mellito con o senza danno d’organo, più o meno associati a ASCVD nota (anche i pazienti con diabete di tipo 1, di età superiore a 40 anni possono rientrare in questa categoria); e ASCVD clinicamente accertata (IMA, SCA, rivascolarizzazione coronarica o altro intervento di rivascolarizzazione arteriosa, ictus e TIA, aneurisma aortico e PAD) o rilevata ai test di imaging mediante il riscontro di placche alla coronarografia o all’ultrasonografia carotidea o alla CTA.

 

Nella definizione del rischio vengono presi in considerazione parametri clinici e laboratoristici, dalla cui analisi è possibile determinare una specifica classe di rischio.

Le ultime linee guida ESC 2023 per il trattamento delle malattie cardiovascolari presentano alcune novità per quanto riguarda la stratificazione del rischio nei pazienti diabetici. Le precedenti linee guida sulla prevenzione suggerivano l’utilizzo dello score ADVANCE (Action in Diabetes and Vascular disease: preterAx and diamicroN MR Controlled Evaluation), tuttavia poco applicabile alle popolazioni europee odierne. Per fare fronte a questi limiti, le ultime linee guida ESC 2023 raccomandano l’utilizzo dello SCORE2-Diabetes, che consiste in un’estensione del sistema SCORE2 europeo ricalibrato, applicabile specificatamente ai soggetti con diabete mellito di tipo 2 di età compresa tra 40-69 anni senza ASCVD o danno d’organo severo per stimare il rischio individuale di eventi CV fatali e non fatali a 10 anni (Tabella 2).

Per ognuna delle categorie sopra descritte sono stati, pertanto, individuati diversi profili di rischio (basso-moderato, alto e molto alto) a seconda della probabilità di sviluppare malattie cardiovascolari fatali e non fatali a 10 anni. Così facendo è possibile individuare i target di pressione arteriosa e di colesterolo non-HDL da raggiungere.

 

Approccio farmacologico con i farmaci ipolipemizzanti

L’approccio farmacologico con i farmaci ipolipemizzanti attualmente in uso prevede una strategia “stepwise” al fine di conseguire il target LDL definito in base alla categoria di rischio designata. Le stesse linee guida forniscono le riduzioni assolute dei livelli di C-LDL che possono essere raggiunte con diversi approcci terapeutici (Tabella 3): si passa da una riduzione media stimata dei livelli di C-LDL del 30% con una terapia con statine di intensità moderata, al 50% con una terapia con statine ad elevata intensità, fino al 65% con l’aggiunta di ezetimibe (16). L’aggiunta di un inibitore della PCSK9 alla terapia con statine ad alta intensità da sola o associata a ezetimibe può portare la riduzione dei livelli di C-LDL rispettivamente al 75% e 85%. L’effetto ottenuto con l’utilizzo di una monoterapia con statina ad alta intensità può essere raggiunto mediante l’associazione con statine ad intensità moderata + ezetimibe. Recenti evidenze, infatti, supportano tale scelta al fine di migliorare l’aderenza terapeutica grazie ad una riduzione degli effetti indesiderati secondari all’utilizzo di statina ad alta intensità (17).

Alla luce di quanto finora esposto, appare evidente come le nuove strategie di intervento si dovrebbero basare non soltanto sul raggiungimento del livello più basso di C-LDL, ma anche sulla precocità del trattamento, soprattutto in presenza di specifiche condizioni e fenotipi clinici (18). In particolare, nei pazienti a rischio molto elevato, così come quelli a rischio estremamente elevato (1 o più eventi entro 2 anni), potrebbe essere vantaggioso iniziare la terapia ipolipemizzante direttamente con la combinazione statine + ezetimibe. L’impiego della tripla terapia (statine + ezetimibe + inibitori della PCSK9) prima della dimissione potrebbe consentire di sfruttare al massimo i benefici derivanti dalla terapia di associazione precoce.

 

Trattamento ipocolesterolemizzante intensivo: effetti sulla placca aterosclerotica

I meccanismi patogenetici che concorrono alla formazione della placca aterosclerotica e alla sua progressione sono diversi e il processo sotteso al suo sviluppo è altamente dinamico, nonché associato a fenomeni differenti (19). Ad oggi, grazie alle metodiche di imaging intracoronarico è possibile definire l’estensione e la composizione della placca aterosclerotica in vivo, permettendo di valutare le variazioni qualitative e quantitative indotte dalla terapia farmacologica.

Diversi studi condotti negli ultimi anni hanno mostrato, inoltre, come un farmaco ipolipemizzante potesse non solo rallentare la progressione della placca aterosclerotica coronarica, ma anche indurre fenomeni di regressione significativi (20,21).

Un recente trial ha confrontato due statine al massimo dosaggio, rosuvastatina 40 mg/die e atorvastatina 80 mg/die, in pazienti con patologia coronarica. In entrambi i gruppi si è documentata un’importante e significativa regressione dell’aterosclerosi coronarica. Entrambi i regimi di trattamento hanno indotto una regressione nella maggior parte dei pazienti e presentavano profili di effetti collaterali accettabili, con una bassa incidenza di alterazioni degli esami di laboratorio ed eventi cardiovascolari (22).

Studi che hanno esaminato l’efficacia di rosuvastatina versus atorvastatina sulla placca aterosclerositica hanno evidenziato come la rosuvastatina sia più efficace nella rapida stabilizzazione della placca e di una maggiore regressione del suo volume (23-25). Negli ultimi anni, gli anticorpi monoclonali inibitori di PCSK9 hanno avuto larga diffusione nel trattamento dei pazienti con malattia coronarica in associazione con statine ed ezetimibe. Diversi trial ne hanno studiato in vivo gli effetti sulla placca aterosclerotica. È interessante notare come esista una chiara corrispondenza tra regressione dell’aterosclerosi e beneficio clinico della molecola (26-28).

 

La semplificazione della terapia per migliorare l’aderenza al trattamento

Le osservazioni del mondo reale, tuttavia, attestano l’ampio divario circa l’effettivo conseguimento dei target raccomandati dalle linee guida. Nello studio osservazionale europeo DA VINCI solo il 18% dei 2.888 pazienti in prevenzione secondaria presentava un valore di C-LDL < 55 mg/dl, di questi solo il 9% era in trattamento con statina a moderata/alta intensità + ezetimibe e il 45,8% era in trattamento con una statina a bassa o media intensità. Anche i risultati dello studio EUROASPIRE IV relativi alla terapia ipolipemizzante nei pazienti con coronaropatia hanno dimostrato che, nonostante le evidenze dei benefici della terapia ipolipemizzante intensiva, molti pazienti con coronaropatia e dislipidemia non vengono adeguatamente trattati, solo un terzo dei pazienti viene dimesso con una terapia intensiva con statine.

Questo potrebbe essere spiegato in parte dallo scarso impiego di terapie di combinazione, in parte dalla bassa aderenza al trattamento, ascrivibile, tra i diversi fattori, alla terapia poli-farmacologica stessa che impone al paziente con multiple comorbilità l’assunzione di diversi farmaci (29,30).

La polipillola, contenente diversi agenti farmacologici mirati al controllo di uno o più fattori di rischio o di malattia, rappresenta una strategia di semplificazione della terapia che consente di favorire l’aderenza e migliorare gli outcomes clinici cardiovascolari (31). Una revisione sistematica della letteratura, che ha incluso nove studi clinici randomizzati, ha evidenziato che una polipillola contenente almeno un agente antipertensivo e uno ipocolesterolemizzante è associata ad un’aderenza terapeutica del 33% superiore rispetto alla terapia standard (31,32). Ad oggi, le linee guida della Società Europea di Cardiologia sulla gestione delle dislipidemie raccomandano l’impiego di farmaci che contengono più agenti terapeutici in un’unica compressa. Il peso della polifarmacologia sull’aderenza terapeutica è confermato anche dalla dimostrazione che i pazienti in terapia ipolipemizzante che ricevono l’associazione statina + ezetimibe in un’unica pillola presentano una probabilità dell’87% più elevata di essere altamente aderenti al trattamento rispetto a quelli che assumono i due farmaci separatamente, indipendentemente da età, genere o profilo clinico, e con una riduzione degli outcomes CV del 55% rispetto ai pazienti con bassa aderenza (33).

Appare evidente come nel paziente dislipidemico a rischio di sviluppare patologie cardiovascolari sia opportuno applicare un trattamento ipolipemizzante intensivo, garantendo la massima aderenza terapeutica. Uno studio recente ha valutato il contributo congiunto dell’intensità e dell’aderenza alla terapia prescritta sugli eventi CV in pazienti dislipidemici con fattori di rischio CV o patologie CV conclamate.

È stata quindi confermata l’associazione di entrambi i fattori con una maggiore diminuzione del rischio CV, come effetto di un’efficace riduzione dei ivelli di C-LDL. Il rischio CV più basso è stato infatti osservato nei pazienti con elevata aderenza a un trattamento ipolipemizzante intensivo.

 

Conclusione

Il trattamento ipolipemizzante si è dimostrato efficace nella prevenzione cardiovascolare, ma la scarsa propensione a prescrivere un regime intensivo e la ridotta aderenza costituiscono ancora forti barriere all’ottimizzazione terapeutica. Considerato l’elevato impatto epidemiologico che tutt’oggi hanno le patologie cardiovascolari, con alti tassi di mortalità a livello globale, appare dunque essenziale implementare le strategie di trattamento mediante l’utilizzo di associazioni farmacologiche (e.g. statina a moderata/alta intensità + ezetimibe) al fine di migliorare l’aderenza terapeutica e ridurre il burden di rischio aterosclerotico.

 

 

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Autore/i: Antonella Ortello, Francesco Comparato, Vincenzo Sucato

U.O.C. di Cardiologia, Dipartimento di Promozione della salute Materno-Infantile, Medicina Interna e Specialistica di Eccellenza (ProMISE), A.O.U. Policlinico P. Giaccone, Università degli Studi di Palermo

Tabella 1
Tabella 2
Tabella 3

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