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Comment to Giovambattista Desideri1, Roberto Pontremoli2, Claudio Borghi3

1 Dipartimento di Medicina Clinica, Sanità Pubblica, Scienze della Vita e dell’Ambiente 2 Dipartimento di medicina interna e specialità mediche, Univerità di Genova 3 Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università di Bologna

Le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di morte nelle civiltà occidentali e la loro incidenza dipende in maniera prevalente dall’intervento integrato di una serie di fattori di rischio cardiovascolare che condizionano lo sviluppo della malattia aterosclerotica e promuovono le sue complicanze in conseguenza di meccanismi sovrapposti di trombosi vascolare (1).

Uno degli aspetti che in questi ultimi anni è emerso in maniera preponderante è rappresentato dall’evidenza che il panorama del rischio cardiovascolare appare molto più ampio di quello prospettato dall’approccio proposto dalla tradizionale epidemiologia basata sullo studio di Framingham in ragione dell’intervento di una serie di ulteriori determinanti del rischio cardiovascolare, spesso ampiamente modificabili ed in grado di condizionare quello che viene conosciuto come “rischio cardiovascolare residuo” e che condiziona un’aumentata probabilità di complicanze cardiovascolari anche in presenza di un controllo adeguato dei principali fattori di rischio. A questo riguardo nel corso degli ultimi anni un numero impressionante di studi scientifici ha prepotentemente riacceso il dibattito scientifico sul problema dell’iperuricemia cronica e delle patologie correlate come determinanti del rischio cardiovascolare, tematica che ha attraversato in lungo ed in largo la letteratura epidemiologica degli ultimi 30-40 anni in ragione del frequente riscontro di una significativa associazione tra livelli di acido urico, presenza di malattia gottosa ed aumento del rischio relativo di complicanze cardiovascolari (2). Le evidenze scientifiche attualmente disponibili, invero, attribuiscono all’iperuricemia, con e senza deposito di urato, una responsabilità fisiopatologica certamente non trascurabile in tutte le fasi del continuum cardio-cerebro-renale che va dell’esposizione ai vari fattori di rischio, allo sviluppo di danno d’organo e alla comparsa di eventi cardiaci, cerebrali e renali.

L’iperuricemia, infatti, si comporta in modo non dissimile dai fattori di rischio cardiovascolare tradizionali con i quali spesso si associa in una relazione talmente stretta da lasciare supporre l’esistenza di un nesso patogenetico probabilmente di tipo bidirezionale in cui iperuricemia e fattori di rischio tradizionali – ipertensione e dismetabolismo glicidico in primis – interagiscono generando un circuito di amplificazione reciproca (2).

Indipendentemente dalla tendenza dell’iperuricemia a combinarsi con gli altri fattori di rischio cardiovascolare è di non poca rilevanza fisiopatologica la dimostrazione derivante da diversi studi epidemiologici che l’iperuricemia è un predittore indipendente di eventi cardiovascolari a conferma dell’ipotesi di una diretta lesività vascolare dell’iperuricemia suggerita dei modelli fisiopatologici (2). L’acido urico, ad esempio, è in grado di penetrare all’interno delle cellule della parete vascolare attraverso il trasportatore degli anioni organici attivando così la proteinkinasi ad attività mitogena (MAPK), stimolando la produzione di molecole ad attività infiammatoria (tra cui la PCR), fattori di crescita, chemochine (tra cui monocyte chemoattractant protein-1) e sistemi enzimatici (tra cui la ciclossigenasi di tipo 2).

Tali modificazioni conducono all’ipertrofia delle cellule muscolari lisce e favoriscono il processo di disfunzione endoteliale. L’acido urico, inoltre, è in grado di up-regolare il recettore AT1 dell’angiotensina II esponendo le strutture vascolari ai potenziali effetti aterogeni di questa molecola (2). Nel corso degli ultimi anni l’interesse della ricerca si sta focalizzando anche sulla via metabolica che porta alla formazione di acido urico, come possibile mediatore del danno cardiovascolare nel paziente con iperuricemia e, quindi, come possibile target terapeutico per le malattie cardiovascolari.

La xantina ossidoreduttasi e danno vascolare

Questo enzima, isolato per la prima volta nel latte oltre cento anni fa, si compone di due forme tra loro interconvertibili, la xantina ossidasi (XO) e la xantina deidrogenasi (HDH) (3). Le due forme differiscono nel fatto che la XO può ridurre soltanto l’ossigeno mentre la XDH può ridurre sia l’ossigeno che il NAD+ pur mostrando una maggiore affinità per quest’ultimo (3). Entrambe le forme sono in grado di catalizzare la conversione dell’ipoxantina a xantina e della xantina ad acido urico, le due reazioni finali della via metabolica di degradazione delle purine (3). La xantina ossidoreduttasi contiene tre cofattori: una molibdopterina, due centri ferro-zolfo e un flavin-adenin-dinucleotide (FAD). La xantina ossidoreduttasi viene trascritta come un singolo prodotto genico ma può subire delle modificazioni post-traslaszionali, ad esempio in corso di infiammazione, attraverso l’ossidazione di residui di cisteina in posizione critica o una proteolisi parziale, a seguito delle quali viene trasformata in XO (4,5). Le differenze fondamentali tra XO e XDH risiedono nella diversa conformazione delle due molecole e nel diverso microambiente elettrostatico che circonda il cofattore flavinico da cui deriva una ridotta affinità della XO per il NAD+ e una maggiore affinità per O2 (6). Gli elettroni che vengono acquisiti dal cofattore molibdopterina durante la biosintesi di acido urico vengono poi trasferiti alla FAD ed utilizzati per ridurre O2 sia in modo divalente, con formazione di perossido di idrogeno, che in modo univalente con generazione di anione superossido (6). La conversione della xantina ossidoreduttasi in XO, tuttavia, non è un indispensabile per la generazione di anione superossido in quanto anche la xantina ossidoreduttasi mostra una certa attività ossidasica in presenza di una ridotta biodisponibilità di NAD+, ad esempio in quelle condizioni di ischemia/ipossia che si osservano nella flogosi vascolare aterogenica (7). In queste condizioni, peraltro, si osserva anche un aumento dell’espressione di XO e, conseguentemente, un aumento della generazione di specie reattive dell’ossigeno che finiscono per influenzare profondamente la fisiologia vascolare. Questo rende ragione del miglioramento della funzione vascolare che è stato descritto in diversi contesti clinici, quali il diabete mellito e lo scompenso cardiaco, in corso di trattamento con inibitori della XO (8-11). È interessante notare che in condizioni di ischemia/ipossia la xantina ossidoreduttasi una volta sintetizzata può venire riversata in circolo, soprattutto da parte del distretto splancnico che rappresenta la principale sede di attività di questa specifica via enzimatica (12,13) (Figura 1).

Dopo la sua immissione in circolo la xantina ossidoreduttasi viene immediatamente convertita in XO da parte delle proteasi plasmatiche. La presenza di tasche cationiche sulla superficie dell’enzima conferisce a quest’ultimo una particolare affinità per i glicosaminoglicani (GAG), carichi positivamente, presenti sulla superficie delle cellule endoteliali (14). La formazione di complessi XO-GAG porta all’accumulo del XO a livello delle superficie endoteliale e ad un aumento della generazione di specie reattive dell’ossigeno a questo livello (15). L’attività enzimatica della xantina ossidoreduttasi, soprattutto quando esageratamente aumentata, può influenzare negativamente la fisiologia vascolare perché le specie reattive dell’ossigeno (in particolare superossido e perossido di idrogeno) sono in grado di reagire con l’ossido nitrico per formare perossinitrito, una specie ossidante di natura non radicalica.

Questa reazione porta ad un duplice effetto negativo: da un lato la degradazione dell’ossido nitrico si accompagna a uno sbilanciamento della funzione endoteliale in senso proaterogeno, protrombotico, vasocostrittore; dall’altra il perossinitrito di per sé è una specie altamente reattiva che amplifica gli effetti dello stress ossidativo (2,16). Considerando il ruolo svolto da ossido nitrico a livello dell’albero circolatorio (controllo del tono parete vasale, prevenzione nell’adesione leucocitaria, inibizione dell’adesione ed aggregazione piastrinica, inibizione della proliferazione dell’intima) ben si comprende come i processi che comportano la riduzione della sua biodisponibilità causino inevitabilmente un’alterazione dell’omeostasi a livello vascolare. A conferma del coinvolgimento fisiopatologico della XO nella genesi del danno vascolare, è stato descritto un incremento dell’attività di questo enzima in sezioni di tessuto proveniente da placche aterosclerotiche ma non da tessuto vascolare di soggetti sani (2).

Inibizione della xantina ossidasi e protezione vascolare

L’evidenza di un profondo coinvolgimento fisiopatologico della XO nella genesi del danno vascolare derivante da studi di fisiopatologia sperimentale e clinica ha indotto molti ricercatori a verificare la possibilità che l’inibizione di questo enzima possa tradursi in benefici effetti a livello cardiovascolare. Una metanalisi degli studi che si sono occupati di questa affascinante tematica ha dimostrato, sia pur con una certa eterogeneità tra i diversi studi, un effetto nella generalità dei casi favorevole del trattamento con gli inibitori della XO su numerosi parametri di funzione cardiovascolare.

In particolare, è stato osservato un significativo miglioramento della funzione endoteliale sia valutata come vasodilatazione flusso-mediata (FMD) (+2.50 %, 95% C.I. 0.15–4.84) (Figura 2) che come risposta del flusso ematico nell’avambraccio isolato e perfuso all’infusione di acetilcolina (+68.80, 95% CI, 18.70–118.90) (Figura 3) (17).

In corso di trattamento con inibitori della XO è stato anche osservato un miglioramento dello stress ossidativo sistemico valutato attraverso il dosaggio dei livelli circolanti di malondialdeide (17). A livello cardiaco è stato osservato un significativo miglioramento della frazione di eiezione, dell’indice cardiaco, del volume telesistolico e dell’efficienza miocardica in corso di trattamento con inibitori della XO (17).

In ambito trialistico, lo studio Oxypurinol Therapy for Congestive Heart Failure (OPT-CHF), che ha arruolato 405 pazienti con scompenso cardiaco moderato-severo a ridotta frazione di eiezione (classe NYHA III/IV), ha evidenziato un miglioramento clinico in corso di tratta mento con ossipurinolo, metabolita attivo di allopuri- nolo, nei pazienti con aumentati libelli circolanti di acido urico (18). In controtendenza con queste evidenze, lo studio Xanthine Oxidase Inhibition for Hyperuricemic Heart Failure Patients (EXACT-HF), che ha arruolato 253 pazienti iperuricemici (uricemia >9.5 mg/dl), con scompenso cardiaco sintomatico a ridotta frazione di eiezione, randomizzati al trattamento con allopurinolo 600 mg/die o placebo per 24 settimane, non ha dimostra- to differenze significative nei due bracci di trattamento relativamente all’outcome primario (sopravvivenza, peggioramento dello scompenso cardiaco e stato funzionale globale) (19).

Più recentemente lo studio di Safety Cardiovascular Safety of Febuxostat and Allopurinol in Patients with Gout and Cardiovascular Morbidities (CARES) ha confrontato l’efficacia su un outcome specificamente cardiovascolare dei due inibitori di riferimento della XO, febuxostat ed allopurinolo (20). Lo studio ha arruolato 6190 pazienti gottosi con storia di malattia cardiovascolare randomizzati al trattamento con febuxostat o allopurinolo, con un follow-up mediano di 32 mesi.

La frequenza di eventi cardiovascolari è risultata simile nei due bracci di trattamento ma nei pazienti trattati con febuxostat è stato osservato un rischio di mortalità cardiovascolare e totale significativamente più alto rispetto ai pazienti trattati con allopurinolo (+34%, p=0.03 e +22%, p=0.04, rispettivamente). Nell’interpretazione di questi risultati non appare inutile sottolineare come lo studio, con disegno di non inferiorità, non prevedesse un braccio placebo. La succitata differente frequenza di mortalità nei 2 bracci di trattamento potrebbe, quindi, esprimere tanto una neutralità di febuxostat a fronte di una efficacia protettiva di allopurinolo quanto una neutralità di allopurinolo e conseguentemente una pericolosità intrinseca di febuxostat (9). Lo studio CARES, invero, presenta molte limitazioni che ne minano non poco la solidità dei risultati. La cosa che più immediatamente balza agli occhi è la prematura discontinuazione del trattamento, soprattutto entro i primi 24 mesi dalla randomizzazione, nella larga maggioranza dei pazienti (55.9% per allopurinolo e 57.3 per febuxostat).

Questo aspetto assume particolare significato in relazione alla constatazione che la quota maggiore dell’eccesso di mortalità osservato nei pazienti trattati con febuxostat è stata registrata dopo la discontinuazione dei trattamenti mentre nella fase antecedente il nadir della discontinuazione medesima (2 anni) il trend della mortalità era esattamente l’opposto, con un vantaggio a favore di febuxostat.

La recente pubblicazione Febuxostat versus Allopurinol Streamlined Trial (FAST), recentemente pubblicato, ha fatto chiarezza sul profilo di sicurezza di febuxostat soprattutto in ragione della elevata qualità del follow-up (21), punto di estrema debolezza dello studio CARES (20). Soltanto il 5.5% dei pazienti nel gruppo allopurinolo ed il 6.2% dei pazienti nel gruppo febuxostat sono stati persi nel corso del follow-up (21).

Lo studio FAST ha confrontato febuxostat e allopurinolo con disegno di non inferiorità, arruolando oltre 6 mila con gotta ed almeno un fattore di rischio cardiovascolare addizionale, precedentemente trattati con allopurinolo. Nel corso di un follow-up in trattamento di 1324 giorni febuxostat è risultato non inferiore ad allopu- rinolo per l’endpoint primario composito di ospedalizzazione per infarto miocardico non fatale o riscontro di un aumento dei biomarker sindrome coronarica acuta, ictus non fatale o morte cardiovascolare nell’analisi on-treatment (hazard ratio aggiustato pari a 0.85, intervallo di confidenza al 95% compreso tra 0.70 e 1.03, limite di non inferiorità pari a 1.3), risultato confermato nell’analisi intention-to-treat. La non inferiorità di febuxostat è risultata evidente anche per vari outcome secondari compresa la morte per cause cardiovascolari e per tutte le cause. Invero, i pazienti arruolati nel CARES avevano tutti una storia di malattia cardiovascolare mentre nel FAST poco più di un terzo dei pazien- ti riferiva storia di eventi cardiovascolari pregressi. Tuttavia, in questo sottogruppo di pazienti arruolati nello studio FAST non è stato osservato un eccesso di mortalità anche se il numero di pazienti potrebbe essere stato insufficiente a definire con certezza il potenziale rischio legato all’uso di febuxostat in pazienti con patologia cardiovascolare severa.

I risultati del Febuxostat for Cerebral and Cardiorenovascular Events Prevention Study (FREED), recentemente pubblicati, producono nuove evidenze a supporto di una possibile protezione cardiovascolare derivante dall’inibizione della XO (22) ed al tempo forniscono alcuni spunti interpretativi dei risultati dello studio CARES (20). Lo studio FREED, multicentrico, prospettico, randomizzato in aperto con analisi in cieco degli endpoint, ha arruolato oltre mille individui ultrasessantacinquenni iperuricemici (uricemia >7.0 e ≤9.0 mg/dl), a rischio di eventi cerebrali, cardiovascolari o renali in ragione della presenza di ipertensione, diabete mellito di tipo 2, malattia renale o di una storia di malattia cardio o cerebrovascolare almeno 3 mesi prima dell’arruolamento. I partecipanti allo studio sono stati assegnati a due regimi di trattamento, febuxostat o non-febuxo- stat, rispettivamente, per un periodo di 36 mesi. Il disegno dello studio prevedeva una dose di partenza di febuxostat di 10 mg/die titolata a 20 mg/die dopo 4 settimane e, quindi, alla dose target di 40 mg/die dopo ulteriori 4 settimane. Nel braccio non-febuxostat era prevista la possibilità di utilizzare allopurinolo 100 mg/die in caso di incrementi dell’uricemia nel corso dello studio. Per entrambi i bracci di trattamenti era prevista la possibilità di una modulazione della dose di inibitore della XO per evitare che l’uricemia scendesse al di sotto dei 2 mg/dl. L’outcome primario (composito di eventi cerebrali fatali e non fatali, eventi cardiovascolari e renali, e mortalità per cause vascolari non cerebrali o cardio-renali) è risultato significativamente più basso nel braccio febuxostat (hazard ratio 0.750, intervallo di confidenza al 95% compreso tra 0.592 e 0.950, p=0.017) (Figura 4), riduzione principalmente trainata dalla riduzione degli eventi renali (16.2% nel braccio febuxostat vs 20.5% nel braccio non-febuxostat, hazard ratio 0.745, intervallo di confidenza al 95% compreso tra 0.562-0.987, p=0.041). I risultati dello studio FREED sembrano, quindi, suggerire l’interessante prospettiva che il trattamento con febuxostat in pazienti iperuricemici non gottosi possa tradursi in una efficace protezione cardio-renale (22). Nello studio FREED l’occorrenza di eventi cardiocerebrovascolari maggiori, come pure la mortalità, sono risultate simili nei due gruppi di trattamento.

Considerando che solo il 27% dei pazienti assegnati al gruppo non-febuxostat ha ricevuto nel corso dello studio un trattamento con allopurinolo, i risultati dello studio FREED sono pienamente in linea con le evidenze di sicurezza cardiovascolare prodotto dallo studio FAST (21). In linea con questa ipotesi interpretativa, anche nello studio Febuxostat Versus Placebo Rando- mized Controlled Trial Regarding Reduced Renal Function in Patients With Hyperuricemia Complicated by Chronic Kidney Disease Stage 3 (FEATHER) il trattamento con febuxostat è risultato associato ad un numero di problematiche cardiovascolari e cerebrali, riportate nello studio nell’ambito degli eventi avversi, simili al placebo (23). Non appare inutile sottolineare come anche nello studio FREED il profilo di rischio cardiovascolare dei pazienti arruolati fosse meno impegnativo rispetto a quello dei pazienti arruolati nello studio CARES.

Nello studio FREED l’8.4% dei pazienti erano coronaropatici, il 6.9% era affetto da scompenso cardiaco, il 6% aveva storia di eventi cerebrovascolari ed il 2.3% era vasculopatico (22). Nello studio CARES la storia di eventi cardiovascolari maggiori era un criterio di inclusione e, conseguentemente, la prevalenza della comorbidità cardiovascolari era assai maggiore (20).

Conclusione

Le evidenze della letteratura trialistica sembrano suggerire la possibilità che il blocco della XO possa configurarsi come un prezioso strumento di protezione cardiovascolare in molti ma non in tutti i pazienti ad aumentato rischio cardiovascolare. La XO parrebbe, infatti, rappresentare un importante bersaglio terapeutico in prevenzione cardiovascolare in quelle condizioni, assai frequenti, nella quali la sua attività viene esageratamente aumentata per effetto di uno stimolo ipossico/ischemico o infiammatorio cronico, quale quello rappresentato dalla flogosi vascolare aterogenica. Il naturale derivato di questa ipotesi interpretativa è rappresentato dalla necessità di poter disporre di misure affidabili e riproducibili del grado di attività della XO per individuare al meglio quegli individui, probabilmente molti, che possono maggiormente beneficiare di un blocco potente e selettivo della XO.

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